Piccole donne e piccole donne crescono – Trama e adattamenti

Piccole Donne - Trama

“Piccole donne” è il più famoso romanzo di Louisa May Alcott, pubblicato inizialmente negli Stati Uniti in due volumi, il primo nel 1868 e il secondo nel 1869. Nel 1880 i due volumi furono riuniti in uno solo, Little Women. In Italia si preferì dividere il romanzo in due parti, Piccole donne e Piccole donne crescono

Ambientato durante la Guerra Civile Americana, il libro offre un affascinante ritratto della vita delle quattro sorelle March: Meg, Jo, Beth e Amy, e delle loro avventure e sfide nell’America del XIX secolo.

Ogni sorella March ha la sua personalità unica e le sue aspirazioni: che si tratti delle ambizioni letterarie di Jo, l’anima ribelle tra le sorelle; del desiderio di amore e romanticismo di Meg, la sorella maggiore e più responsabile; della gentilezza di Beth, la sorella più timida; e dell’ambizione artistica di Amy, la sorella più piccola e viziata, ma anche molto saggia. 

“Piccole donne” affronta temi importanti come l’indipendenza e l’empowerment femminile. Louisa May Alcott rompe gli stereotipi del suo tempo, mostrando come le donne possano avere ambizioni e realizzare i loro sogni, che vanno al di là dei tradizionali ruoli domestici, anche in un’epoca in cui erano spesso limitate dai ruoli di genere tradizionali. Personaggi come Jo March, che desidera diventare scrittrice, e Amy March, che sogna di diventare un’artista, illustrano il desiderio delle donne di realizzarsi e di essere considerate per le proprie capacità e talenti.

Un altro tema centrale è l’importanza dei legami familiari e dell’amicizia. Le sorelle March  sono unite da un profondo affetto e sostegno reciproco. Grazie anche alla saggezza della mamma, riescono a credere in loro stesse e crescere, imparando a superare le difficoltà insieme.

I temi e i messaggi universali di “Piccole donne” sono ancora rilevanti oggi, poiché invitano i lettori a riflettere sulla forza dei legami familiari, sull’importanza dell’autenticità e sull’empatia verso gli altri.

FILM PICCOLE DONNE DEL 1994 – Adattamento cinematografico

Il film “Piccole donne” del 1994, diretto da Gillian Armstrong, è un adattamento del romanzo di Louisa May Alcott. Ecco alcune delle principali differenze tra il libro e il film del 1994:

Piccole donne - Adattamento cinematografico

Nel libro tradotto in italiano, la storia si sviluppa in due libri distinti, con una pausa temporale di quattro anni tra la prima e la seconda parte. Nel film, invece, la trama è presentata in maniera più lineare, senza una divisione netta in due parti.

Nel romanzo, la storia si sviluppa in modo cronologico, seguendo le vicende delle sorelle March nel corso degli anni. Nel film, invece, la narrazione è più frammentata e si concentra principalmente su alcuni momenti chiave della storia. 

Il libro offre una prospettiva sulla vita delle donne dell’epoca, con dettagli accurati sull’abbigliamento, i valori culturali e le dinamiche sociali del XIX secolo

Il film del 1994 offre una ricca ambientazione e scenografie che cercano di ricreare l’epoca vittoriana in cui è ambientato il romanzo. L’attenzione ai dettagli, ai costumi e gli ambienti visivamente accattivanti contribuiscono a immergere gli spettatori nel mondo delle sorelle March, in modo assolutamente fedele.

In generale, il film del 1994 riesce a catturare l’essenza e i temi fondamentali della storia, pur apportando alcune modifiche per adattarsi al mezzo cinematografico.

PICCOLE DONNE DI GERONIMO STILTON – Adattamento per bambini

Piccole donne - Adattamento per bambini

“Piccole Donne” di Geronimo Stilton è un affascinante adattamento per bambini del classico romanzo di Louisa May Alcott. 

Con il suo stile unico e giocoso, Geronimo Stilton porta i lettori in un’entusiasmante avventura, popolata da personaggi topi indimenticabili e ambientata in un mondo fantastico.

Geronimo Stilton riesce a mantenere l’essenza del racconto originale, enfatizzando i valori di amore, coraggio e determinazione

La narrazione di Geronimo Stilton e l’inclusione di illustrazioni donano un tocco di allegria e divertimento alla storia, catturando l’attenzione dei giovani lettori.

Un’opera che rende omaggio all’eredità letteraria di “Piccole donne”.

“Schiavi del tempo” E IL VALORE DEL TEMPO NELLA SOCIETà POSTMODERNA

Schiavi del Tempo” è un libro scritto da Ivan Petruzzi e tratta il tema del rapporto umano con il tempo e come esso influenzi la nostra vita quotidiana. Il libro esplora come la società postmoderna ci renda “schiavi del tempo“, ossessionati dalla fretta, dai ritmi frenetici e dalla costante ricerca di produttività.

Schiavi del tempo di Ivan Petruzzi.

Schiavi del Tempo: RiflessionE filosofiCA

Il concetto del tempo ha affascinato l’umanità fin dall’alba della nostra esistenza. Siamo creature vincolate da un’incessante marcia del tempo e ci sentiamo costretti a misurare la nostra vita attraverso gli orologi e gli impegni che scandiscono il nostro quotidiano. In questo contesto, il libro “Schiavi del Tempo” affronta in modo filosofico la nostra complessa relazione con il tempo e ci invita a considerare come questo rapporto influenzi il nostro modo di vivere e di percepire la realtà.

L’autore ci fa riflettere su come siamo diventati schiavi del tempo nella società moderna. Siamo costantemente spinti a essere produttivi, a sbrigare le nostre attività con velocità e a rispettare scadenze sempre più stringenti. Ci troviamo intrappolati in una corsa contro il tempo, privati della possibilità di godere dei momenti presenti e delle relazioni autentiche. Questa schiavitù del tempo ci impedisce di vivere appieno, di contemplare la bellezza del mondo che ci circonda e di approfondire la nostra conoscenza di noi stessi.

L’autore analizza le conseguenze negative di questa mentalità, evidenziando come siamo spesso privati di momenti di riposo, di relazioni significative e di connessione con noi stessi. 

Attraverso storie personali, esempi concreti e riflessioni filosofiche, l’autore sottolinea l’importanza di ritagliarsi spazi di libertà e di godere appieno dei momenti presenti, anziché essere costantemente proiettati verso il futuro o imprigionati nel passato. Una delle sfide principali che il libro offre al lettore è la necessità di sviluppare una consapevolezza temporale. Spesso viviamo senza interrogarci sul significato delle nostre azioni o sulla qualità dei nostri momenti. L’autore ci invita a rallentare, a fermarci e a riflettere sul tempo che trascorre, sulla sua qualità e sulle scelte che facciamo.

Questo libro ci incoraggia a riscoprire l’autenticità dei nostri momenti. Solo attraverso una relazione più consapevole e intima con il tempo possiamo sperare di rompere le catene della schiavitù temporale e trovare un senso più profondo di realizzazione.

Schiavi del Tempo e il valore del tempo nella società postmoderna.

Democratici e repubblicani: Chi sono i buoni e i cattivi?

Buoni o cattivi: democratici o repubblicani.

La classificazione degli individui in base al loro orientamento politico può aiutare, in un primo momento, ad avere un quadro generale delle caratteristiche riguardanti i valori primari di una persona. Questo quadro di valori andrà inevitabilmente messo a confronto con i nostri principi, fino farci categorizzare frettolosamente gli altri in base a quello che secondo noi è giusto o sbagliato: se qualcosa o qualcuno andrà in contrasto con i nostri ideali, lo riterremo sbagliato o ingiusto, e viceversa. Questo confronto in base alle tendenze politiche, e che la maggior parte delle volte viene fatto automaticamente, risulta essere superficiale e immaturo e ci porta a un giudizio infondato e talvolta impreciso, che si ferma alle apparenze e che annulla il nostro spirito critico ed empatico, inoltre così facendo rischiamo di attribuire delle etichette a persone solo per la loro appartenenza a un’ideologia politica (che poi è ciò che avviene la maggior parte delle volte). 

La distinzione tra buono e cattivo è una suddivisione convenzionale, sociale e culturale, che aiuta i genitori a far comportare “bene” i figli addestrati, per fare bella figura con gli altri. Forse non è sempre così, ma d’altronde chi sceglie cos’è bene e male? È ovvio che nel momento in cui feriamo qualcuno in modo fisico o psicologico stiamo facendo del male, perché sbagliato è solo ciò che fa star male l’altro, il resto è tutto relativo

Buoni e cattivi

Se questa suddivisione in buoni e cattivi viene considerata per giudicare un governo o un partito, il concetto rimane lo stesso. Non esiste un partito politico buono o cattivo, il giudizio è dipeso da tanti fattori: i buoni possono essere considerati buoni da alcuni e cattivi da altri e viceversa. 

Analizzando lo scenario politico degli USA e scendendo nella particolarità dell’argomento mi chiedo perché, ad esempio, per quanto riguarda i due partiti esistenti statunitensi democratico e repubblicano, rispettivamente i primi sono di solito considerati i “buoni” e i pacifici, mentre i secondi i “cattivi” di turno. Mi chiedo se sia la parola stessa a spingerci a categorizzarli in questo modo, forse il termine “democratico” che ci fa pensare a democrazia e quindi ai principi di uguaglianza, libertà e fraternità che rimandano a un concetto di pace. 

Ricordiamo che originariamente il Partito Democratico comprendeva da una parte coloro che erano favorevoli alla schiavitù e dall’altra coloro che contrastavano questa forma di disumanizzazione. Il Partito Democratico di oggi è il risultato della divisione.

Invece il partito Repubblicano era stato formato e portato avanti da attivisti anti-schiavitù. 

DIFFERENZE TRA PARTITO DEMOCRATICO E PARTITO REPUBBLICANO

Democratici e Repubblicani

Cerchiamo di capire la differenza generale tra i due partiti:

I democratici generalmente si dimostrano particolarmente impegnati nelle questioni sociali. Essi sostengono apertamente l’aborto e i diritti di tutti. I democratici intendono imporre tasse più alte per chi riceve un reddito elevato e aumentare invece il salario minimo.

Si dice che i democratici siano più riluttanti a usare la forza militare contro altri paesi.

Contrariamente ai democratici, i repubblicani si dimostrano maggiormente impegnati nelle questioni estere. Socialmente conservatori, legati alla religione, intendono aumentare il bilancio militare, limitare l’immigrazione illegale e aumentare i controlli alle frontiere. Hanno generalmente posizioni difficili sui diritti di aborto o contraccettivi. I repubblicani sembrano favorire il taglio delle tasse per tutti, sia ricchi che poveri.

In linea generale si dice che i democratici siano più restii all’uso delle armi e dell’intervento militare. Purtroppo questo non risulta veritiero e coerente alle decisioni prese dai leader democratici nella storia. 

Per spiegare meglio, di seguito offro una lista di scelte politiche e  delle decisioni governative prese dopo la Grande Depressione economica del ‘29. Ho volontariamente scelto di evitare di scrivere l’appartenenza al partito politico dei presidenti: attraverso la descrizione del loro governo si avrà un esame più oggettivo, senza essere condizionati dal partito del presidente.

Herbert Hoover 1929-1933: nella sua azione politica cercò di contenere la crisi economica ed era a favore della riduzione degli armamenti. Durante la guerra si dimostrò quasi sempre contrario a Roosevelt e alle sue scelte, opponendosi al New Deal e all’accordo per la resa incondizionata, per mettere fine alla guerra. 

Franklin Delano Roosevelt 1933-1945: accompagnò il paese nei due momenti più difficili della storia americana e mondiale, il crollo della Borsa del 1929 e la Seconda guerra mondiale. Alle difficoltà di questo periodo Roosevelt rispose con il New Deal, un programma politico per risollevare la nazione dalla depressione economica. 

Harry Truman 1945-1953: decisione di sganciare la bomba atomica sul Giappone. formulò la dottrina Truman, che garantiva il sostegno degli Stati Uniti ai paesi che fossero minacciati dal comunismo, promuovendo il piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa. Promosse l’istituzione della NATO (1949) e l’intervento in Corea del Sud per fermare l’invasione della Corea del Nord.

Dwight Eisenhower 1953-1961: mise fine alla Guerra di Corea. Durante la Guerra Fredda minacciò l’uso del nucleare per fermare l’avanzata comunista. 

John Kennedy 1961-1963: adottò una serie di misure sociali, per contrastare la povertà e diminuire la disoccupazione, promulgò inoltre leggi contro la discriminazione razziale. Tuttavia, iniziò la guerra in Vietnam e tentò l’invasione della Baia dei Porci per contrastare Fidel Castro e invadere Cuba, ma non ci riuscì. Fautore della politica di “contenimento” del comunismo, il 22 novembre 1963 venne assassinato. 

Lyndon Johnson 1963-1969: intensificò gli sforzi militari durante la Guerra in Vietnam e aveva inoltre ordinato l’invasione della Repubblica Domenicana per contrastare il governo socialista del tempo.

Richard Nixon 1969-1974: mise fine alla guerra in Vietnam dopo una serie di bombardamenti a tappeto sulle città e poi, segretamente, anche in in Cambogia e Laos

Gerald Ford 1974-1977: a seguito dell’invasione nord-vietnamita della Corea del Sud, Ford decise di intervenire in supporto della Corea del Sud, ma l’intervento fu negato dal Congresso. Quindi durante il suo governo non combatté guerre.

Jimmy Carter 1977-1981: per combattere i russi che avevano invaso l’Afghanistan creò ii mujaheddin e i talebani, che poi si sarebbero rivoltati contro gli stessi americani. Fu protagonista del fallimento militare per liberare gli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran.

Ronald Reagan 1981-1989: durante il suo governo intervenne militarmente in America Latina, pertanto invase Grenada nei Caraibi per evitare coalizioni comuniste con Cuba.

Inoltre bombardò la città di Tripoli, nel tentativo di uccidere Gheddafi.  

George Bush 1989-1993: Intervenne nella Guerra del Golfo, a seguito dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, e la vinse. Diede anche l’ordine di invadere Panama per assassinare il dittatore Manuel Noriega.

Bill Clinton 1993-2001: Durante il suo mandato cercò di risolvere la recessione e avviare una serie di riforme economiche. Nonostante la situazione economica del paese migliorò, rimasero vivi i problemi legati alla criminalità e le ineguaglianze. Il maggiore impegno di Clinton, però, fu quello di risolvere il conflitto israelo-plaestinese. Ordinò bombardamenti contro i Serbi e Belgrado. Nel 1998, in risposta agli attentati di Al Qaeda, per ritorsione fece bombardare obiettivi in Afghanistan e in Sudan.

George W. Bush 2001-2009: iniziò una guerra in Afghanistan, che fu appoggiata da quasi l’intera nazione, e un’altra in Iraq che invece, fu contestata dall’opinione pubblica statunitense e mondiale. 

Barack Obama 2009-2017: vincitore del Nobel per la Pace nonostante gli interventi in Siria, Libia, Iraq e Afghanistan. Inoltre ha bombardato anche lo Yemen, la Somalia e il Pakistan. 

Donald Trump 2017- 2021: https://ecorandagio.it/la-bufala-delle-guerre-mai-combattute-di-trump/

Joe Biden 2021- presente: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-politica-estera-di-biden-medio-oriente-un-ritorno-al-passato-26527

In conclusione numerose sono state le guerre, che hanno visto l’intervento statunitense, scatenate indipendentemente dal partito politico di appartenenza del presidente in carica. Quindi è da smentire il fatto che i democratici siano meno guerrafondai rispetto ai repubblicani. Tutto dipende dagli interessi politici ed economici del presidente e dei rappresentanti.

La linguistica forense: il caso di Timothy evans e di unabomber.

Che cos’è la linguistica forense?

La linguistica forense è la disciplina che studia il linguaggio criminale, giudiziario, di diritto penale e civile. Questo linguaggio è stato studiato e analizzato da linguisti e criminologi che, soprattutto negli ultimi anni, hanno apportato un grande contributo alla giustizia per risolvere casi e crimini.

La linguistica forense, che cos'è e perché è importante.

La linguistica forense si occupa di analizzare il linguaggio e le espressioni comunicative di un individuo coinvolto in un qualsiasi esempio di processo penale o sospetto sulla scena del crimine, al fine di risolvere tali casi. Ognuno di noi possiede un proprio stile comunicativo e unico e per quanto si possano provare a celare le caratteristiche linguistiche, ci sarà sempre una peculiarità che ci distingue e che condurrà il perito alla verità.

La linguistica forense non si occupa solo di indagare su crimini attraverso il linguaggio, ma anche dei cosiddetti language crimes, cioè i crimini che sono commessi con il linguaggio stesso, come ad esempio le minacce, le estorsioni, i casi di hate speech, ecc.

Che cosa fa il linguista forense?

I linguisti forensi studiano e comparano le prove scritte e verbali al fine di risolvere un caso.

Attraverso un’analisi dettagliata il perito può infatti, riuscire ad identificare l’autore di uno scritto anonimo all’interno di una cerchia di sospetti, tramite una comparazione di testi scritti, può effettuare indagini sul plagio e sulle violazioni dei diritti di autore, può far capire se durante un interrogatorio o un processo venga detta la verità

Quindi un linguista si occupa dell’analisi della fonetica, morfologia, sintassi, semantica, pragmatica.

La loro analisi tiene conto della scelta delle parole, la struttura morfo-sintattica utilizzata, l’uso del dialetto, la scelta del lessico e di tutti gli aspetti paraverbali che concernono un testo orale, come il tono della voce, la presenza di umh, e illustrazioni o gesti. 

Le conclusioni che si raggiungono potrebbero aiutare a determinare l’esito di un procedimento penale.

La linguistica forense e la stilometria:

La stilometria è lo studio di uno stile linguistico, unico a tutti. Grazie alla stilometria, e alla sua applicazione, si attribuisce un determinato scritto a un soggetto. Comparando un numero di testi di un solo autore in questione, ricorrono abitudini stilistiche: ricorrenza di alcune parole che questo soggetto usa frequentemente, se l’autore è solito o meno a giustificare un testo, la grandezza delle parole, la punteggiatura, la scelta dell’interlinea, le locuzioni comuni, utilizzo improprio di vocali accentate, errori ortografici comuni. Questo insieme di elementi danno origine alla stilometria e contribuiscono attraverso la linguistica forense a trovare il vero autore di un testo. 

Che tipo di testi analizzano i linguisti forensi?

La tipologia dei testi dipende dall’ indagine su cui lavorare. 

Come linguista forense, l’esame linguistico consiste nell’analisi dei seguenti esempi: testamenti, trascrizioni telefoniche, mail, sms, lettere di suicidio, di minaccia, chiamate di emergenza, dichiarazioni, testimonianze, colloqui investigativi, note, confessioni. Tutti questi testi vengono analizzati minuziosamente.

Che metodi usa la linguistica forense?

Per addentrarsi nell’analisi di un testo orale o scritto, un linguista forense si avvale di metodologie analitiche e di algoritmi computazionali di cybersecurity e di metodi di ricerca come la Critical Discourse Analysis o la Conversation Analysis.

LA LINGUISTICA FORENSE IN ITALIA 

Nonostante l’utilità di questa disciplina, al momento la linguistica forense è presente in maniera molto attiva solo negli Stati Uniti e in Inghilterra, dove il dipartimento di linguistica forense di Aston University a Birmingham è un centro di eccellenza. 

In Italia la linguistica forense non risulta essere nota o comunque raramente viene presa in considerazione, talvolta poiché richiede un investimento economico dispendioso, nonché del tempo di ricerca e talaltra spesso si mostra un forte scetticismo in materia, dato che ancora e nonostante un numero di casi risolti, non risulta essere una materia così “affidabili” come le scienze.

Nonostante questa diffidenza generale la linguistica forense veniva utilizzata spesso in passato. Ad esempio durante la Seconda guerra mondiale i linguisti attraverso tentativi di intercettazione di telefonate cercavano di studiare i linguaggi in codice o si affidavano a un mediatore linguistico forense per la traduzione dei messaggi degli alleati di altre nazioni o dei messaggi intercettati del nemico.  Al contrario dell’Inghilterra o degli USA, questa disciplina non è stata conservata in Italia, forse solo oggi ne sentiamo parlare di più, ciononostante solo alcune città hanno unità di polizia o università che praticano analisi di linguistica forense. In Italia la Società Italiana di linguistica forense si occupa di divulgare la linguistica forense anche in Italia.

Il ruolo del mediatore linguistico nel linguaggio forense. 

I cittadini stranieri coinvolti in eventuali procedimenti penali o civili hanno bisogno di essere affiancati a un mediatore interprete o traduttore forense che attraverso l’abbattimento di barriere linguistiche, culturali e legali, conoscendo pertanto la legislazione di più realtà, sarà in grado di offrire al cliente straniero un processo giusto e degno, per l’integrazione, il riconoscimento dei diritti dell’interessato nonostante le difficoltà linguistiche.

Il caso di Timothy Evans

Il primo caso di uso di linguistica forense risale alla pubblicazione di Jan Svartvik del suo libro del 1953 “The Evans Statements”: A Case for Forensic Linguistics.

Timothy Evans e il primo caso di linguistica forense.

Nel suo studio l’autore analizzò minuziosamente la storia di Timothy Evans che era stato accusato dalla polizia di aver ucciso la sua famiglia. A seguito di una lettera dove l’uomo confessava il suo omicidio, la polizia lo arrestò per poi condannarlo a morte nel 1950. 

Svartvik si avvalse di attente e dettagliate analisi linguistiche per mettere in questione la vicenda di Timothy Evans e scoprire la vera origine e il vero autore della lettera di confessione. Dall’analisi formulò che la polizia avesse incolpato ingiustamente l’uomo, al punto da scrivere una confessione falsa. Solo dopo la sua morte Evans fu dichiarato essere innocente.

Unabomber il caso risolto grazie alla Linguistica

Unabomber e il caso risolto grazie alla linguistica forense.

Numerosi sono stati i casi risolti grazie all’applicazione della linguistica forense, di seguito l’esempio più noto.

Negli Stati Uniti degli anni Settanta un tale Ted Kaczynski, noto come Unabomber, si dimostrò per quasi vent’anni occupato nella creazione e spedizione di pacchi postali contenenti esplosivi fino ad essere arrestato il 3 aprile 1996, quando a seguito di analisi linguistico forensi fu scoperto essere il responsabile dell’omicidio dei riceventi dei pacchi.

L’uomo si era dimostrato essere particolarmente attento nell’agire all’oscuro da tutti e agile nel camuffarsi e nel lasciare false tracce al FBI. La sua azione risultava essere una protesta violenta contro i fautori del progresso tecnologico e il suo obiettivo era quello di fare fuori coloro che a suo avviso avrebbero potuto rappresentare un giorno delle minacce tecnologiche per la società.

Nel 1995 minacciò i giornali statunitensi, il New York Times e il Washington post di pubblicare il suo Manifesto intitolato “ La Società Industriale e il suo Futuro”. 

L’FBI investigò affinché qualcuno potesse riconoscere lo stile con cui era scritto il testo e fu proprio il fratello del terrorista David Kaczynski a riconoscere nel Manifesto lo stile e le idee del fratello e consegnò ai detective delle vecchie lettere scritte dal fratello.

L’FBI così iniziò una serie di procedimenti investigativi, utilizzando tecniche di linguistica forense e grazie all’analisi e al confronto dei testi, riuscirono a riconoscere l’identità del terrorista, data la presenza di importanti affinità linguistiche tra i documenti analizzati. Tra le somiglianze riscontrate, l’uso di “analyse” al posto di “analyze”, l’uso di “licence” anziché “license”.

Fu, quindi, proprio la linguistica forense che permise la cattura di Unabomber,

Il linguaggio e la capacità di influenzare il nostro modo di pensare? The Arrival e l’ipotesi di Sapir-Whorf, con spoiler 

The Arrival: trama e recensione

Dodici astronavi extraterrestri, appaiono contemporaneamente in diversi luoghi della Terra. Non è chiaro il motivo per cui siano arrivate, né se vi sia una logica dietro la scelta dei luoghi dell’atterraggio, l’unica certezza è il caos dovuto al panico generale degli umani, a cui si aggiunge l’intenzione di Cina e Russia di agire tempestivamente e sterminare gli alieni, o i cosiddetti Eptapodi, per via dei sette arti. Tuttavia, questo intervento bellico potrebbe avere gravi conseguenze sull’umanità, pertanto gli USA decidono di intervenire in un altro modo, cercando a tutti i costi un modo per dialogare con gli alieni.

The Arrival e la capacità del linguaggio di influenzare il nostro modo di pensare.

Louise Banks, professoressa di linguistica all’università, celebre linguista e studiosa, nonché in passato, traduttrice di importanti documenti per il governo, viene selezionata grazie alla sua esperienza per far parte di una squadra speciale di esperti, istituita al fine di tentare la comunicare con la specie aliena. 

La donna si dovrà recare al sito d’atterraggio di una delle strane astronavi, dove conoscerà i colleghi, tra cui il fisico Ian, che la accompagneranno nel viaggio alla scoperta del linguaggio alieno. Infatti riceve l’incarico di chiedere agli alieni da dove vengano e quali siano le loro intenzioni. Lo scopo della missione è proprio quello di riuscire a entrare nell’astronave e stabilire una comunicazione con gli alieni, al fine di comprendere il motivo del loro arrivo sul pianeta.

A seguito di una missione che l’ha messa a contatto con gli Eptapodi, si intuisce che la comunicazione aliena si basa sulla creazione di segni circolari creati da un fumo nero che fuoriesce dai tentacoli, formando frasi palindrome iscritte in simboli circolari che rappresentano delle frasi intere e non parole singole. Il loro linguaggio, tuttavia, è estremamente complesso e Louise fatica a stabilire una comunicazione in poco tempo. Analizzando i dati raccolti e con l’aiuto del suo collega Ian, dopo mesi la linguista comincia a creare un vocabolario di base.

Nel frattempo, Louise inizia ad avere singolari visioni a cui però non riesce a dare una spiegazione. Con il tempo le visioni aumentano e le risulta difficile distinguere il presente dal passato, o la realtà da un sogno, mettendo di conseguenza in dubbio anche lo spettatore.

La situazione mondiale intanto però, si complica sempre di più. Incerti sulle intenzioni degli alieni, i governi di tutto il mondo si arrendono alla comunicazione e si preparano a dichiarare guerra. Nell’ultima sessione comunicativa con gli alieni, Louise che ormai possiede un vocabolario di base per comunicare con loro, domanda quale sia il motivo del loro arrivo sulla Terra. Interpretando un simbolo alieno, capisce che forse che gli alieni siano venuti sulla Terra per “un’arma”. Incerta però della traduzione e mentre tutti si preparavano per evacuare la zona e iniziare la guerra, la protagonista chiamerà il governatore cinese e grazie a una frase ignota allo spettatore, lo convincerà a non far scoppiare la guerra. 

The Arrival e la capacità della lingua di influenzare il modo di pensare di un individuo.

Giunti alla fine del film si scoprirà che ciò che gli alieni vogliono offrire alla specie umana non è un’arma per fare guerra, bensì un dono: la loro lingua. Grazie a essa infatti, si diventa in grado di cambiare la percezione lineare del tempo, interpretazione umana per lo più Occidentale e cristiana, che diventa appunto circolare. Ciò permette di sperimentare visioni dal futuro, premonizioni di ciò che deve ancora accadere. I simboli circolari alieni quindi risultano dalla concezione circolare che hanno del mondo. Louise, e lo spettatore con lei, comprende allora che le visioni che aveva non erano flashback dal passato, bensì anticipazioni di qualcosa che doveva ancora verificarsi. Utilizzando la comunicazione, Louise riesce a impedire lo scoppio di una guerra.

Critiche riguardo il film “The Arrival”: 

Un grande messaggio di Arrival è che basterebbe comunicare e aprirsi all’idea dell’esistenza di altri punti di vista per aiutarsi e per poter vivere in un mondo migliore. 

Durante il film lo spettatore si chiede continuamente se la linguista riuscirà in tale lavoro e se è davvero possibile instaurare un dialogo con una specie non umana. A mio avviso lo spettatore rimane curioso durante la proiezione del film, in attesa del momento di dimostrazione dei passaggi e delle strategie che hanno condotto la studiosa alla scoperta del significato dei simboli. Questa parte nel film manca e questa assenza rende il film particolarmente noioso e deludente. Mi sarei aspettata che il film avesse offerto allo spettatore una chiave per leggere quei simboli, o quanto meno che avesse mostrato velocemente le tappe, le strategie o delle fasi di studio del linguaggio alieno, invece il regista si è limitato a mostrarci la studiosa che guarda i simboli, senza spiegare i passaggi che l’hanno portata a saperli interpretare. Ecco a mio avviso questa aggiunta sarebbe stata un jolly per il film.

Ciononostante ho apprezzato la scelta del regista di scegliere una protagonista donna con il ruolo di traduttrice e interprete che, grazie al suo lavoro, riesce a salvare il mondo. È grazie ai mediatori infatti che i paesi riescono a confrontarsi tra loro per cercare delle soluzioni insieme. Inoltre è interessante sapere che il film sia basato sulla teoria della relatività linguistica e di come il linguaggio abbia la capacità di influenzare il nostro modo di pensare. Cerchiamo di capire meglio.

La teoria di Sapir-Whorf

L’Ipotesi di Sapir-Whorf funge da chiave di lettura per il film “The Arrival”, motivo per il quale viene citata anche nello stesso film. Questa ipotesi afferma che la lingua che parliamo ha la capacità di influenzare il nostro modo di pensare. L’ipotesi, conosciuta anche con il termine “relativismo linguistico”, prende il nome dal linguista e antropologo Edward Sapir e dal suo allievo Benjamin Lee Whorf, ed indica che ogni lingua implica una particolare e unica interpretazione della realtà. Secondo Whorf e Sapir, le lingue riescono ad influenzare la visione del mondo e determinare i valori dei parlanti di una determinata lingua: di conseguenza i parlanti di lingue diverse avranno un modo diverso di concepire la realtà, incompatibile con qualsiasi altro modo di percepire altre verità.

L’Ipotesi di Sapir-Whorf funge da chiave di lettura per il film “The Arrival”, motivo per il quale viene citata anche nello stesso film.

I parlanti sono visti come dei prigionieri della loro lingua materna, e difficilmente potranno liberarsi dalle categorie e divisioni che la struttura della loro lingua ha imposto sulle percezioni e i pensieri, da quando hanno iniziato a parlare. Imparare una lingua diversa dalla nostra, significherebbe quindi “entrare a farne parte”, saper mediare linguisticamente tra culture diverse, capire ed apprendere un modo di vedere l’universo in maniera diversa e scoprire nuove verità, come ad esempio il modo di concepire il tempo. Nel film The Arrival infatti, il linguaggio extraterrestre risulta essere palindromo e quindi ciclico, pertanto per comprenderlo si dovrà seguire una concezione ciclica del tempo. La linguista riesce in tale acquisizione: si appropria della lingua aliena e riesce inconsciamente a viaggiare con essa nel tempo: passato e presente perdono di senso e si rivelano per Louise strettamente connessi l’uno all’altro, tanto da potersi influenzare a vicenda.

Molti sono stati affascinati dalla possibilità di creare nuovi linguaggi. Basti pensare ad Orwell in 1984: si inventa una neolingua per poter condizionare i cittadini e consentire una manipolazione del pensiero. 

In quale mondo ti fa vivere la tua lingua?

In altre parole, studiare una lingua ti porta a interpretare il mondo di un determinato popolo e puo’ orientare l’attenzione su realtà e aspetti del mondo differenti

Nel libro Lingua ed Essere di Kübra Gümüsay, l’autrice cerca di rispondere a una domanda: “Cosa è venuto prima, la nostra lingua o la nostra percezione?”. Di seguito lascio una citazione del libro, come prova che una nuova lingua sia in grado di modificare la nostra percezione e aiutarci a aprire gli occhi sui limiti della nostra: 

Nel libro Lingua ed Essere di Kübra Gümüsay, l’autrice cerca di rispondere a una domanda: "Cosa è venuto prima, la nostra lingua o la nostra percezione?”.

“In una calda notte d’estate sul porto di una piccola città nel sud-ovest della Turchia, bevevamo tè nero e sbucciavamo semi di girasole salati (…).  Mia zia guardò il mare, in quell’oscurità profonda e tranquilla, e mi disse: “Guarda quanto brillano quegli yakamoz!”. Io seguii il suo sguardo, senza riuscire a trovare da nessuna parte qualcosa che rilucesse così tanto. “Ma dove?”, le chiesi. Lei indicò di nuovo verso il mare, ma io continuavo a non capire a cosa si riferisse. Ridendo, si inserirono i miei genitori per spiegarmi cosa significasse la parola yakamoz: descriveva il riflesso della luna sull’acqua. E finalmente anch’io vedevo davanti a me quel bagliore nell’oscurità. Yakamoz. E da allora lo vedo a ogni passeggiata notturna vicino al mare. E mi chiedo se anche le persone intorno a me lo vedano. Anche quelle che non conoscono la parola yakamoz.”. 

Kübra Gümüsay

“Strappare lungo i bordi” e la traduzione dei dialetti

Zerocalcare e Strappare lungo i bordi.

Strappare lungo i bordi” è una serie televisiva originale Netflix, basata sul fumetto omonimo, scritto e disegnato da Zerocalcare. La serie racconta la storia di un giovane fumettista che vive avventure con il suo gruppo di amici, con i quali affronta le sfide della vita. 

Attraverso il suo stile spensierato e ironico Zerocalcare riesce a coinvolgere i suoi lettori e spettatori e farli riflettere sui temi che, in un certo qual modo coinvolgono tutti noi, e di cui, nonostante ciò, abbiamo difficoltà a parlarne con gli altri. 

Il protagonista infatti è un inetto che raccontando la propria vita affronta temi quali, la solitudine, la frustrazione che si prova pensando a un sogno che non si è potuto realizzare, e soprattutto il senso continuo di ansia nel pensare che le scelte che facciamo possano non essere quelle che il destino ha messo in serbo per noi e quindi, la paura costante di vedere che la propria vita non stia andando lungo i bordi come previsto. 

La serie ha avuto un grande successo, in primo luogo per la capacità dell’autore di arrivare allo spettatore grazie alla leggerezza di narrazione e al linguaggio semplice scelto. Di solito in molti bei film o ancora di più nelle serie, lo spettatore riesce ad immedesimarsi in un personaggio, a tal punto da condividerne pianti, lacrime, sorrisi, paure e vittorie. In questa miniserie avviene l’esatto contrario: è il protagonista che in soli 6 episodi da venti minuti riesce a rappresentare tutti noi, chi più chi meno, con le nostre angosce, agitazioni e inquietudini, ma in particolare il paradosso di sentirci un momento responsabili di tutti i mali del mondo e improvvisamente invece, usando la metafora dell’autore, un filo d’erba in un prato

Nella serie si intrecciano momenti ironici e altri più profondi e commoventi, che fanno riflettere lo spettatore, creando un’esperienza coinvolgente a 360 gradi, grazie anche all’uso di inquadrature creative e della musica.

ZEROCALCARE, DIALETTO E CRITICHE

Lo stile linguistico che caratterizza le opere di Zerocalcare, funge da jolly anche nella serie, la cui peculiarità principale sta proprio nell’essere narrata interamente in dialetto romanesco. I personaggi si esprimono attraverso modi di dire tipicamente romani, la maggior parte delle volte ironici, ma anche critici della società attuale, e che di conseguenza determinano la struttura della serie, rendendola unica.

La scelta dell’uso del dialetto però, implica l’utilizzo di un registro basso e non accessibile a tutti, che ha portato Zerocalcare ad essere inevitabilmente criticato.

Tuttavia in un’intervista l’autore afferma che a questa sua scelta artistica, si aggiunge la volontà di rendere il prodotto accessibile ad un pubblico nuovo, in questo caso i suoi concittadini romani e offrire agli spettatori una descrizione della realtà romana, con il suo accento, la sua leggerezza e allo stesso tempo la sua serietà. 

La scelta del dialetto e dell’utilizzo di espressioni strettamente dialettali rendono la serie poco fruibile a tutti, non solo al pubblico italiano che non conosce il romanesco, ma anche a quello straniero, poiché porta con sé diverse difficoltà traduttive, con le quali dovranno confrontarsi gli adattatori e dialoghisti delle lingue di destinazione.

Come si traduce un dialetto?

L’adattatore e il traduttore hanno il compito di creare ponti linguistici e culturali, al fine di colmare la distanza tra la lingua e la cultura del film originale e quella del film tradotto e adattato, apportando aggiunte o perdite, ma mantenendo in ogni modo il contenuto del prodotto iniziale. Solo in caso di voluta censura, bisognerà provvedere al taglio di determinate scene del prodotto, qualora non ci fosse questa necessità, l’adattatore dovrà tradurre lo script per poi adattarlo poi alla realtà della cultura di arrivo. 

Traduzione dei dialetti, con particolare attenzione al dialetto romanesco.

Il compito del traduttore non si riassume meramente della traduzione letterale delle battute del personaggio, bensì la sua missione sarà lasciare nello spettatore straniero la stessa sensazione che prova lo spettatore romano nel vedere e ascoltare la serie di Zerocalcare.

CRITICHE RIGUARDO L’ADATTAMENTO DI “STRAPPARE LUNGO I BORDI”.

Dal momento che i personaggi parlano in romanesco è logico chiedersi: i traduttori e i doppiatori sono riusciti ad offrire allo spettatore un lavoro fedele o simile?

CRITICHE RIGUARDO L’ADATTAMENTO DI “STRAPPARE LUNGO I BORDI”.

A tal proposito diverse sono state le critiche riguardo l’adattamento dei dialoghi della serie in lingua straniera. C’è chi, infatti, conferma la mancanza di impatto emotivo nella traduzione verso il francese e in particolare in lingua inglese. Questa mancanza di enfasi è dipesa dalla scelta dei doppiatori di agire attraverso un appiattimento del linguaggio romanesco, per cui la traduzione riesce a trasmettere il significato delle battute originali, ma non la loro enfasi emotiva. Sarà stata la scelta giusta? Avrebbero potuto intervenire in un altro modo talvolta più efficace?

DOPPIAGGIO E SCELTE TRADUTTIVE IN “STRAPPARE LUNGO I BORDI”

Tradurre una serie come Strappare lungo i bordi, risulta essere un compito arduo e complesso a causa degli infiniti modi di dire dialettali. Il dialoghista può adottare due strategie diverse: o si opta per la scelta di mantenere le strutture morfo-sintattiche, il lessico e lo stile della lingua di partenza, oppure si cerca di rendere la traduzione più vicina alla lingua e la cultura di arrivo.

Ad esempio in una scena della serie, un’amica del protagonista dice: “È ‘n cojone che va allo Zecchino d’oro vestito da Renato Zero”. Il doppiaggio in inglese ha scelto di mantenere il riferimento al cantante italiano e ha considerato non determinante la traduzione del programma televisivo, traducendolo semplicemente con tv : “He is a moron who goes on tv dressed up as Renato Zero”. Invece il doppiaggio francese ha scelto di adattare al pubblico francese, il riferimento a Renato Zero e allo Zecchino d’oro, risultando quindi nella seguente traduzione: “C’est un couillon qui a participé à l’école des fans déguisé en M.”. Il cantante italiano è stato sostituito con M. (cantautore francese Matthieu Chedid) e il festival, un programma musicale francese. È evidente quindi la volontà dei doppiatori francesi, di avvicinare la traduzione al pubblico target tramite l’uso di precisi riferimenti culturali. C’è la possibilità che un francese o un inglese non sappiano chi sia Renato Zero o cosa sia lo Zecchino d’Oro, pertanto sarebbe inutile tradurli e lasciare incomprensibile la traduzione.

Doppiaggio di Zerocalcare e del dialetto romanesco

Di seguito un esempio traduttivo, all’inglese e poi al francese, con vicino la traduzione letterale del doppiaggio in lingua straniera:

“ Te vai con la macchina, io te raggiungo col coso… come se chiama?… er coso dai… Ah te raggiungo col ca**o”.

“ If you take the car, I’ll follow you in the… what’s it call, again?Ah yes, I’ll follow you in the absolutely not. (Se vai con la macchina, io ti raggiungo con…come se chiama?Ah ti  raggiungo nell’assolutamente no).

“ Tu avances avec la voiture, je te rejoindrai dans… Uh comment on dit déjà? Je l’ai sur le bout de ma langue…ah oui, je te rejoins dans tes rêves. (Te vai con la macchina, io ti raggiungo nei…come si dice? Ah ti raggiungo nei sogni).

Come notiamo entrambi le traduzioni riescono a esprimere il concetto, e a mio avviso funzionano poiché riescono a mantenere allo stesso tempo un tocco di comicità, come nell’originale. Ciononostante analizzando le traduzioni, si percepisce una perdita, chiamata residuo, data probabilmente dall’assenza nelle traduzioni della parolaccia, che nell’originale, fa ridere ma che lascia chi ascolta un po’ colpito

Nonostante le svariate critiche, Strappare lungo i bordi è stata vista, apprezzata e dibattuta in ben 5 lingue straniere (inglese, francese, spagnolo, portoghese e polacco), facendo così conoscere Zerocalcare in tutto il mondo.

La società cambia e la lingua dove schwa a finire? 

Lo schwa: che cos’è? Come si usa?

Nell’ultimo decennio si è cercato di creare un’identità linguistica. Oltre al genere maschile e femminile, si sta cercando di aprire la lingua a tutti i generi attraverso l’introduzione nella grammatica italiana dello schwa. Quest’ultimo ha lo scopo di creare un linguaggio genderizzato, e quindi adatto a tutti, in alternativa all’ammissione della chiocciola o dell’asterisco, per esempio. Lo schwa rappresenta la vocale per eccellenza perché posizionata al centro del triangolo vocalico, ed è simile a una “e” capovolta: ə. Questo andrebbe a sostituire la vocale finale di una parola (articoli, participi passati, …) e creare così un genere linguistico neutro, evitando l’uso del maschile sovraesteso. L’obiettivo è rendere l’italiano una lingua più inclusiva, pronta ad accogliere i bisogni di tutti i generi. 

Schwa sì o schwa no?

La convinzione dell’esistenza del solo genere maschile e femminile, dati dalla giustificazione biologica, ha portato alla discriminazione e al tabù dell’esistenza di altri generi (gis gender, transgender, demigirl, demiboy, bisgender, agender). 

Questa discriminazione sociale e culturale, a sua volta, ha posto dei confini in ambito linguistico: la grammatica italiana infatti, a differenza di molte altre lingue, distingue attualmente solo due generi grammaticali, il maschile e il femminile. Ciononostante, nessuno si dovrebbe trovare nella condizione di non sentirsi a suo agio con la propria lingua. Purtroppo però, intervenire sulla morfologia delle parole per rendere la lingua accessibile a tutti, non è facile e ci vorrà del tempo. Riguardo questo argomento ci sono due schieramenti. 

Perché usare lo schwa?

Da una parte c’è chi, come la linguista Vera Gheno, pensa che la lingua disponga di molti mezzi per poter includere tutti i generi: è la cultura che ne pone i freni.

Se la lingua italiana si aprisse all’introduzione dello schwa – nonostante basi culturali da consolidare – esso potrebbe spingere a pensare in modo diverso. Sembra una questione di poco conto, ma le parole usate male pesano e radicalizzano pregiudizi. C’è quindi la necessità di progredire con un intervento risolutivo, perché una società che cambia ha bisogno di una lingua che le stia al passo. Bisognerebbe interrogarsi per un utilizzo più inclusivo della lingua, adeguato a descrivere una realtà socioculturale ormai mutata.

Partire da un cambiamento culturale sarebbe un passo da compiere molto grande; bisognerebbe iniziare da soluzioni alternative per creare un effetto pubblicità, che pian piano possa portare a una maggiore consapevolezza. 

Lo schwa potrebbe essere una particolarità grammaticale che nel suo minimo allontana la società dalla classica chiusura mentale avvicinandola invece al cambiamentonecessario quando vi è qualsiasi forma di ingiustizia, discriminazione e esclusione

Gli schieramenti contro lo schwa: rivoluzionare la grammatica è davvero la soluzione all’inclusione?

C’è anche chi non appoggia questa novità per  diversi motivi. In primo luogo l’italiano è una lingua grammaticalmente complessa e le sue irregolarità potrebbero complicare l’utilizzo dello schwa. Se da un lato esso risponde alla necessità di una declinazione neutra inclusiva dal punto di vista del genere, dall’altro esclude tutti coloro che per qualsiasi difficoltà non possono fruirne correttamente. Il linguista D’Achille afferma ad esempio che potrebbe creare ulteriori problematiche in casi di dislessia e sostiene fermamente che “non dobbiamo pretendere di forzare la lingua al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire”.

Per concludere c’è anche chi si schiera contro lo schwa per una questione di cacofonia, affermando che dire “ Ciao a tuttə” risulterebbe impronunciabile e troppo ambiguo per una lingua così intangibile quale la lingua italiana. 

Avatar, un film razzista? I nativi americani chiedono il boicottaggio il film: “Non guardate Avatar”.

Gli attivisti nativi americani hanno definito il film Avatar un’esplicita rappresentazione razzista della propria cultura e intendono boicottarlo

Avatar, un film razzista?

A seguito dello straordinario successo avuto nell’ultimo mese in tutto il mondo, Avatar è stato oggetto di numerose critiche che hanno scatenato un dibattito acceso tra gli spettatori. 

Nonostante l’enorme successo del primo film Avatar, è passato più di un decennio prima del sequel “Avatar: la via dell’acqua“, da dicembre 2022 disponibile al cinema. Dopo solo un mese dalla sua uscita, con un budget di 250 milioni di dollari, ha già incassato oltre due miliardi di dollari a livello mondiale, passando alla storia come uno dei film più costosi mai realizzati. La saga Avatar ha già almeno tre seguiti previsti ma richiederanno anni per essere completati, quindi il film rappresenta un progetto che continua ad espandersi. 

Non tutti gli spettatori, tuttavia, sono così entusiasti della premessa del film. Gli attivisti nativi americani stanno sfruttando i social come Twitter o Tik Tok per condannare e boicottare il film, citando un’intervista di James Cameron in cui afferma che il popolo Na’vi si ispira alle culture indigene americane, in particolare i Lakota.

Perché un film razzista e perché i nativi americani chiedono il boicottaggio del film?

Avatar è considerato un film innovativo, grazie ai suoi strabilianti effetti speciali. Tuttavia, mentre gli elogi per le sceneggiature sono alti, alcuni si dimostrano ferventi detrattori poiché considerano Avatar divulgatore di temi di natura razzista. Alcuni critici hanno notato il parallelismo tra la lotta dei Na’vi nel film contro gli invasori americani e la storia reale degli indigeni americani che affrontano il genocidio e l’oppressione per mano dei colonizzatori europei.

Nonostante il film promuova l’idea che l’invasione sia immorale, ingiustificata e completamente sbagliata, i nativi americani vedono la rappresentazione del popolo Na’vi sminuita, criticando Avatar un film razzista e discriminatorio. Il film è considerato da tali attivisti come un ritratto del concetto di “Salvatore bianco” (white savior) che crede erroneamente di essere necessario per proteggere e preservare le minoranze, a tal punto da convincerle di essere perse senza di lui. 

Avatar un film razzista? James Cameron: “I nativi americani sono i Na’vi”.

James Cameron, Avatar, La via dell'acqua.

James Cameron ha ammesso di essersi ispirato ai nativi americani per rappresentare i Na’vi. In un’intervista Cameron afferma che Avatar fa riferimento al periodo coloniale nelle Americhe, al conflitto e allo spargimento di sangue tra gli aggressori europei e le popolazioni indigene. Inoltre afferma deciso: “I nativi americani sono i Na’vi”.

Queste affermazioni hanno scatenato polemiche. Mentre Cameron probabilmente sentiva che le sue dichiarazioni erano state fatte in sincero sostegno degli individui nativi americani, gli indigeni si sono sentiti offesi.  

“Avatar non è razzista”

I sostenitori del film ritengono che la storia di Avatar sia un omaggio ai nativi, piuttosto che una critica o una caricatura disumanizzante. Sembra ovvio che alla fine Avatar promuova i Na’vi perché, molto chiaramente, sono gli invasori umani ad essere rappresentati come i cattivi e i distruttori.

Indipendentemente dalla discussione online, Avatar: La via dell’acqua continua a raccogliere consensi e riempire i cinema. Infatti, James Cameron ha già girato il terzo sequel di Avatar.

Avatar 2, perché guardarlo? Tematiche e plagio

Avatar 2, La via dell'acqua.

Il ritorno di James Cameron: “Avatar- La via dell’acqua”

Dopo l’acclamato successo del primo Avatar, dopo tredici anni, James Cameron torna ad attirare milioni di spettatori nelle sale dei cinema, con il tanto aspettato sequel uscito nel dicembre 2022, “Avatar: La via dell’acqua”.

Quando il primo “Avatar” arrivò al cinema, nel 2009, con un budget di 237 milioni di dollari, oltre a ricevere il maggior incasso del tempo pari a 2923 miliardi di dollari, riuscì inoltre a lasciare tutti a bocca aperta, grazie agli innovativi effetti speciali e la tecnologia in 3D. Tralasciando l’indiscutibile sceneggiatura, esso rappresenta una riflessione relativa alle emergenti tematiche attuali, in particolare un grido di preoccupazione al cambiamento climatico e alla difficile situazione delle foreste pluviali.

Avatar 2, La via dell'acqua.

Avatar e le tematiche trattate

Nell’arco degli anni trascorsi fra l’uscita del primo “Avatar” e “La via dell’acqua”, il cambiamento climatico e i problemi ambientali sono preoccupazioni sempre più urgenti.
Avatar e la via dell’acqua tratta metaforicamente le tematiche sociali e politiche odierne più disparate, nonché le più rilevanti:


– l’imperialismo e il colonialismo;
l’aggressione militare;
– la resistenza;
– la crisi dei rifugiati;
– lo sfruttamento delle risorse naturali;
– la discriminazione razziale.

Tuttavia in Avatar 2, la tematica che viene più esplicitamente denunciata è la distruzione del Pianeta, specialmente degli oceani da parte degli esseri umani, i quali, nonostante tutto, ancora non sembrano preoccupati del danno senza precedenti che stanno causando e delle conseguenze a cui vanno incontro. Il film descrive gli oceani nella loro bellezza infinita, nella limpidezza e nella luminosa trasparenza, sinonimo di pace e tranquillità per i Na’vi. Questa calma però, non durerà a lungo e sarà stravolta dall’arrivo e dall’egoismo prepotente degli umani. Questi ultimi faranno il possibile per soddisfare i propri bisogni e appagare gli sfizi più futili, anche a danno dei Na’vi, la popolazione locale, invadendo la loro Terra e sfruttando le risorse del territorio. Allo stesso modo i Na’vi, offrono un significato di Resistenza e dimostreranno la loro determinazione nel contrastare l’attacco umano, con lo scopo unico di difendere la loro terra, la loro casa, intendono salvare la natura esponendosi al maggior rischio.

Avatar e le analogie con Balla coi lupi

Avatar e Balla coi lupi
Avatar e Balla coi lupi

Cosa hanno in comune Avatar e Balla coi lupi?

Avatar viene spesso paragonato al film Balla coi lupi e definito tematicamente simile ai film going-nature (divenire nativo). Cameron stesso ha affermato l’affinità di Avatar e talvolta l’ispirazione a questo capolavoro western. Le analogie tra i due film sono numerose e non sembrano essere interpretative: in entrambi infatti un uomo bianco si addentra in una regione selvaggia in cerca di emozioni e di profitto, ma trova il popolo nativo, i Sioux (Balla coi lupi) e i Na’vi (Avatar), che si dimostra essere spirituale e puro dal punto di vista umano, religioso e filosofico. I riti delle due tribù infatti si basano su una filosofia panteista, che equipara Dio alla natura, ma si legano anche alla concezione panica della vita, secondo cui l’uomo e la natura si fondono.
L’uomo cerca di integrarsi agli usi e alle abitudini delle tribù, trova l’amore e mette su famiglia, insieme alla quale dovrà fuggire e trovare riparo dalla caccia da parte del suo ex-schieramento, che lo considera un traditore.
Ancora una volta, in entrambi i film, l’uomo a causa dell’egoismo e delle barbarie emargina le popolazioni locali.

La vittoria di Cameron sta sicuramente nel riuscire a rendere più consapevoli gli spettatori del danno che stiamo recando al nostro sistema marino.

Balla coi lupi, perché guardarlo? Vale davvero la pena?

Balla coi lupi

Recensione Balla coi lupi da un punto di vista culturale

Un film pronto a offrire la più completa ed efficace definizione di intercultura. Nonostante il contrasto a causa della guerra per ragioni territoriali tra due civiltà, c’è chi decide di sfondare la bolla di pregiudizi e di sfiducia per aprire la propria cultura al prossimo e intraprendere un viaggio alla scoperta del nuovo, e di ciò che fino a quel momento era considerato il brutto, il peggiore, l’inferiore, il cattivo. 

Il film descrive nel dettaglio le diverse concezioni del mondo che caratterizzano le due civiltà, gli Occidentali o Europei invasori e gli Americani nativi. Le differenze sono esplicite e ben descritte dalle sceneggiature. I primi vengono sempre presentati in alte uniformi, curati in tutti i dettagli; ad esempio, nella prima parte del film vediamo il protagonista che prima di immergersi nella natura ed esplorare gli spazi interminati della frontiera, si lava l’uniforme, si sistema i capelli, si fa la barba e si perfeziona anche il minimo dettaglio. I nativi invece, non ritengono necessario curare il loro aspetto e sono rappresentati con armi arretrate, quali frecce, accette o archi e nei loro costumi, usi e tradizioni più remote: nelle danze tribali intorno al fuoco, nelle cacce ai bufali, nelle loro abitazioni particolari, nell’organizzazione gerarchica della tribù e mentre si dipingono corpo e viso nei giorni importanti o per andare a combattere contro i Pawnees, altra tribù nativa, per giunta spie dei bianchi. 

Essendo cresciuto con i principi bellici dell’esercito americano e con una cultura prettamente materialistica, il protagonista bianco si ritrova catapultato nella realtà dei nativi, che abbracciano una filosofia panteista, quasi panista della vita. Un cambiamento è necessario per adattarsi e John Dunbar lo fa volentieri. 

Oltre al viaggio tra le due culture, il film offre anche un’esperienza in cui si mettono in dubbio le certezze che si pensano di avere sugli altri, con un conseguente un crollo di pregiudizi e falsi miti, in cui il protagonista scopre che i cosiddetti nemici non sono selvaggi o ladri e invece i nativi capiscono che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, quando scoprono che il Generale è pronto all’integrazione e non allo scontro

Il protagonista John Dunbar, volenteroso di comunicazione, non si arrende all’ostacolo della lingua e cerca di trasmettere i messaggi comunicativi attraverso dei linguaggi non verbali, per esempio, grazie ai gesti e anche a un pò di fantasia, in una scena si sforza ad imitare un bufalo. Grazie a questa sua strategia avviene un primo successo comunicativo e un conseguente scambio di lessico (capisce che bufalo si dice tatanka). Cerca di superare le barriere linguistiche che in un primo momento sembrano allontanare le due etnie ma poi grazie alla pazienza e alla curiosità dell’altro, si riesce comunque a comunicare.  Il linguaggio non verbale è soggetto a interpretazioni diverse in base alle culture. I fraintendimenti accadono ma non devono spaventare, sono anzi occasioni da cogliere per comprendere le differenze culturali ed entrare con maggiore consapevolezza, e magari con un po’ di umorismo e autoironia, nell’altra cultura.

Probabilmente il film non avrebbe mai potuto avere un successo simile in assenza di Alzata Con Pugno. La ragazza infatti, oltre ad essere stata la ragione dell’avvicinamento e della fiducia tra il generale americano e la tribù, ha spogliato il protagonista dai suoi sentimenti più intimi, facendogli scoprire l’amore. Per non dimenticare poi il ruolo di interprete che assume all’arrivo di John per facilitare la comunicazione. Pertanto, la sua funzione mediatica grazie alla conoscenza dell’inglese e l’antica lingua Lakota, necessaria per agevolare la comunicazione, ha reso possibile l’intero film. Ovviamente le buffe e imbarazzanti scene di ostacoli culturali da capire e la storia d’amore sono state, a mio parere, le peculiarità che hanno reso un noioso film western di tre ore, un film che vorresti continuasse ancora di più. 

Il film rappresenta un utopico processo di integrazione tra europei e nativi, purtroppo risultato impossibile a causa delle barbarie invasioni dei primi. 

TRAMA DI BALLA COI LUPI

Balla coi lupi (Dances with Wolves) è un film western, tratto dall’omonimo romanzo di Michael Blake. Vincitore di sette premi Oscar, è stato diretto e interpretato da Kevin Costner nel 1990. 

Il film racconta la storia di John Dunbar, tenente dell’esercito durante la guerra di secessione americana, che dopo essere diventato un eroe, chiede in premio di essere trasferito a Ovest lungo la frontiera col territorio indiano, ai margini delle praterie del Nebraska. Il suo desiderio è quello di vedere la frontiera prima che questa sparisca per sempre a causa dell’arrivo degli Occidentali.

Dunbar vi si stabilisce in compagnia del suo cavallo e vi trova rifugio entrando in simbiosi con la natura, a tal punto da stringere una significativa amicizia con un lupo, chiamato da lui “Due calzini”. Nel film la riflessione si sposa con una spiccata visione panteista decisamente innovativa più vicina alla cultura dei nativi

Il cambiamento del protagonista avviene grazie all’incontro-scontro culturale con i nativi americani, che gli faranno scoprire una nuova realtà e un nuovo approccio al mondo. Infatti si confronta con particolare interesse ai loro usi e costumi. La crescente stima e il rispetto verso questo popolo nomade e l’amore per Alzata Con Pugno, lo porteranno a imparare la lingua lakota e a integrarsi nella vita, nelle tradizioni indiane, a tal punto che i nativi decideranno di dargli un nome Sioux: “Balla coi lupi”. 

A causa dell’arrivo degli invasori Occidentali, la frontiera, tanto contemplata dal protagonista, nonché dallo spettatore durante la visione del film, sparisce per sempre e i nativi, sono destinati alle riserve. Anche Dunbar, considerato un traditore dall’esercito, per non aver eliminato la tribù, scappa con Alzata Col Pugno. 

A mettere la ciliegina sulla torta è stata la decisione di assumere un insegnante di lingua per lezioni di Lakota ai membri del cast. Data la difficoltà nell’apprendere la lingua, sono state omesse le differenze di genere nelle espressioni di Lakota, un fatto che ha fatto sorridere i nativi presenti.

Iceberg culturale

Di seguito offro una mia idea di composizione dell’iceberg culturale dei Sioux.

iceberg culturale dei Sioux
L’iceberg è una metafora utile per definire una cultura. Gli aspetti visibili dell’iceberg sono quelli su cui ci soffermiamo di più quando veniamo a contatto con una cultura nuova. La maggior parte delle volte si tratta di mezze verità riguardo una cultura. Tuttavia è solo a seguito di un’immersione culturale vera e propria che capiamo le ragioni di quanto emerge in superficie, quindi nella parte sommersa dell’iceberg troveremo tutte le caratteristiche che in senso veritiero, definiscono una nazione o civiltà e che spiegano il perché storico di determinati usi, costumi e tradizioni.